1. Dentro il combinato disposto
    Cosa succede con l'Italicum e la riforma costituzionale

     
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    Sicuramente lo abbiamo sentito nominare tutti nei vari talk show, ma quanti hanno davvero capito che cos’è questo combinato disposto? Si tratta questa di un’espressione sempre più usata (e abusata) nel dibattito attuale sul referendum costituzionale, ma non sempre chiara nella sua definizione. In generale sta oggi ad indicare una serie di effetti combinati che la riforma costituzionale e la legge elettorale avrebbero sul nostro assetto istituzionale e vorrebbe quindi comunicare che non si può prendere in considerazione una simile riforma costituzionale senza considerare la legge elettorale vigente. Per molti questi effetti combinati sarebbero il nucleo del cosiddetto “rischio autoritario”, un’espressione che appare tuttavia più mediatica e volutamente provocatoria che reale, così come, da un punto di vista formale, lo è l’idea per cui si andrebbe verso un cambio di forma di governo. Sul piano pratico tuttavia, anche se l’Italia resterebbe una Repubblica parlamentare, muterebbe sicuramente in modo significativo i rapporti fra esecutivo e legislativo e, con essi, il tipo di democrazia in cui viviamo.

    Ad accomunare la nuova legge elettorale e la riforma costituzionale c’è innanzitutto un obiettivo comune, quello della governabilità. Ad essa rispondono sia il corposo premio di maggioranza previsto dall’Italicum al singolo partito, che assegna a chi si impone al ballottaggio o superi il 40% dei consensi il 55% della Camera dei Deputati, sia la marginalizzazione del Senato e del suo ruolo aggiuntivo di controllo sull’esecutivo e sull’attività legislativa. Al nuovo Senato infatti verrebbe tolto, fra gli altri, soprattutto il potere di votare la fiducia all’esecutivo, che resterebbe esclusivo di una Camera, dove, grazie alla legge elettorale, ci troveremmo davanti una maggioranza omogenea e presumibilmente compatta. In aggiunta a questo anche la nuova composizione fluida del Senato contribuirà probabilmente a marginalizzare quest’organo, dal momento che ogni senatore avrà un doppio incarico e sarà legato, per il suo mandato alla camera alta, all’organo dal quale proviene, rendendo difficile la formazione di stabili maggioranze. Solo per fare un esempio se avessimo già il nuovo Senato, in questo si rinnoverebbero 7 senatori nel 2017, 34 nel 2018, 21 nel 2019 e 33 nel 2020, il tutto senza considerare che i sindaci potrebbero avere un mandato non coincidente con quello del consiglio regionale che lo ha nominato.

    Il risultato di questo combinato disposto sarebbe quindi la creazione di un esecutivo sicuramente forte, che difficilmente, a meno di un collasso del proprio partito, potrebbe essere sfiduciato prima della fine del proprio mandato. Se tuttavia la stabilità è sicura, la capacità di indirizzo politico è ancora difficilmente valutabile, in quanto il Senato continuerebbe in teoria a godere di poteri sufficienti ad esercitare un’influente opera di ostruzionismo, esprimendosi fra le altre cose su leggi che incidono sull’ordinamento costituzionale, provvedimenti su questioni europee e concernenti l’ordinamento degli enti locali e regionali. Soprattutto il Senato potrebbe sfociare nell’ostruzionismo a fronte proprio della sua composizione schizofrenica, che non assicura affatto una maggioranza assoluta come alla Camera e che addirittura potrebbe vedere una maggioranza diversa da quella della Camera.

    Per spiegare meglio questo fatto potremmo tentare un esperimento controfattuale: se nel 2013 fossimo andati a votare con l’Italicum e il Senato riformato ci saremmo trovati di fronte ad una situazione potenzialmente di stallo. Al ballottaggio per la Camera sarebbero infatti andati il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle, entrambi con poco più del 25% dei voti, mentre al Senato si sarebbe composta, considerando la composizione degli enti locali in quel periodo specifico, una risicata maggioranza per il PD (circa 45 seggi del PD) e al massimo un solo senatore per il Movimento 5 Stelle. Il risultato quindi, in caso di una non così assurda vittoria di quest’ultimo, sarebbe stato una Camera a maggioranza assoluta per i pentastellati che si sarebbero tuttavia ritrovati senza neppure un rappresentante in Senato.

    Questo apre un’altra problematica legata al combinato disposto, quella della rappresentanza. Quando si tratta infatti riforme su questi temi istituzionali ci si muove infatti molto spesso lungo un’asse governabilità – rappresentanza, dove all’aumentare dell’una diminuisce necessariamente l’altra. Anche nel nostro caso nel favorire la creazione di un esecutivo stabile, la legge elettorale e la riforma costituzionale vanno a colpire pesantemente la rappresentanza, creando una maggioranza assoluta necessariamente artificiale nel sistema di partiti tripolare in cui ci troviamo. Le opposizioni si troverebbero infatti, malgrado la previsione di un non meglio precisato statuto delle opposizioni, marginalizzate alla Camera a dispetto del consenso che possano avere o meno nella popolazione (riprendendo l’esempio del 2013, arrivati al ballottaggio con lo stesso numero di voti il vincitore al ballottaggio si sarebbe ritrovato con circa 345 seggi e lo sconfitto con circa 115).

    Al Senato d’altro canto, come abbiamo visto, resta difficile creare una maggioranza e anche in quel caso la sola strada che sembra percorribile è quella dell’ostruzionismo, inoltre qui la rappresentanza diviene ancora più dubbia di quella della Camera. Anche se non ancora stabilita una vera legge elettorale per il Senato infatti, i numeri fissi dei senatori per ragione rendono già complessa la rappresentanza delle opposizioni (10 regioni hanno diritto a due senatori, di cui uno è un sindaco, rendendo praticamente nulla la rappresentanza dell’opposizione di quella regione).

    Ecco cosa si intendeva all’inizio sostenendo che la doppia riforma rappresenta non un cambio della forma di governo, ma uno del tipo di democrazia. Muoversi lungo l’asse governabilità – rappresentanza significa anche muoversi sulla bilancia del potere sbilanciandosi verso le istituzioni o verso i cittadini. Questo interrogativo è stato ben sintetizzato dal giurista Mario Dogliani: basta votare, o votare non basta?. Questa e altre domande decideranno, speriamo, il voto di ognuno il prossimo 4 dicembre, ricordando che, per quanto in Italia si tratti di legge ordinaria, una legge elettorale incide sull’assetto istituzionale di un paese quasi quanto una riforma costituzionale. L’invito è quindi quello di tenere in considerazione anche questi aspetti in relazione alla riforma costituzionale, considerando che la questione della legge elettorale è oggi in costante evoluzione.


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    Edited by il Fuochista - 18/10/2016, 19:01
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