1. Il terrorismo in Europa: le sue origini, il nostro futuro
    Quante lacrime dovranno ancora essere versate, quanti corpi smembrati dovremo ricomporre prima che l’Europa trovi finalmente la forza di reagire al terrorismo?

    AvatarBy Alessandro Agnitti il 30 Mar. 2016
     
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    Risiamo alle solite verrebbe da dire, se non fosse per la natura drammatica degli eventi cui siamo costretti reiteratamente ad assistere. 22 marzo, 13 novembre, 7 gennaio: tutte date destinate forse a rimanere impresse nella mente di tutti noi, a meno che il numero degli attacchi non cresca tanto da rendere vano anche questo esercizio di memoria.

    Quattro mesi hanno cambiato poco, stesso stupore, stessa rabbia, stesse formule di rito pronunciate dalle nostre autorità: “un attacco alla nostra civiltà”, “evento barbaro”, tante parole minacciose ma vuote, utili più ad assecondare lo stato d’animo dei cittadini che non a trovare delle soluzioni concrete. Non mancano ovviamente i commenti di Salvini, oggetto di una attenzione morbosa sia da parte dei suoi sostenitori sia di quei detrattori che paiono vivere per contestarlo, come se l’importante non fosse tanto comprendere gli eventi quanto più tentare di confutare sempre e comunque ogni singola sillaba che esce dalla bocca di tale individuo.

    Quello del terrorismo di matrice islamica continua ad essere un fenomeno mal compreso, pur non essendo affatto qualcosa di nuovo: se dico Torri Gemelle la quasi totalità di noi saprà a cosa mi riferisco, già se parlo di Londra 2005 o Madrid 2004 la memoria di alcuni potrebbe vacillare. Probabilmente pochi invece saranno in grado di ricordare il 26 novembre 2008, quando una serie di attacchi terroristici mieté nella metropoli indiana di Mumbai ben 195 vittime. Per non parlare del 18 luglio 1993, giorno in cui un furgone-bomba rase al suolo un intero centro ebraico a Buenos Aires assassinando 85 persone.

    Due casi che troppo facilmente sono caduti nell’oblio e che tuttavia devono ricordarci come in realtà il terrorismo non debba essere considerato semplicemente uno “scontro di civiltà” o la naturale conseguenza di un Occidente oppressore e guerrafondaio (ormai i miliziani di Dāʿish/ISIS sono soliti ripetere il mantra “noi vi facciamo guerra perché sganciate bombe sulla Siria, e prima della Siria le sganciavate sull’Iraq e sull’Afghanistan”), ma che sia invece un fenomeno che richieda un’analisi più approfondita per essere compreso a fondo.

    Quale Islam

    Innanzitutto occorre comprendere la natura islamista e prevalentemente araba di questo fenomeno.

    L’Islam non costituisce una fede monolitica, all’interno della ‘umma (la comunità di fedeli) corrono differenze che per numero e natura possono ricordare la frammentarietà del mondo cristiano: accanto ai sunniti e sciiti vi sono gli ibaditi dell’Oman, gli aleviti curdi dell’Anatolia, gli ismailiti, gli alawiti della Siria o i mistici sufi, solo per fare qualche esempio. L’attuale assetto di questo arcipelago di correnti interne all’Islam è il risultato di vicissitudini storiche e politiche e si lega spesso a divisioni etniche.

    La corrente che in particolare deve interessarci per comprendere gli eventi di questi giorni è quella più intransigente e radicale dell’Islam: il wahhabismo, nato da un patto stipulato nella penisola arabica tra il teologo Muhammad ibn Abd al-Wahhab e il capo tribù Abdulaziz ibn Muhammad ibn Saud, capostipite della famiglia regnante dell’attuale Arabia Saudita. Correva l’anno 1744 e l’Europa era una realtà semisconosciuta alla maggioranza degli arabi.

    Il wahhabismo ricerca la purezza dell’Islam delle origini (come Dāʿish si rifà ai primi Califfati), promuove una interpretazione letterale del Corano e, influenzato dalla scuola giuridica hanbalita, concepisce come uniche fonti del diritto il Corano e altri testi religiosi che descrivono la vita del Profeta e dei suoi compagni.

    Nei secoli, il destino del wahhabismo è rimasto legato a quello della dinastia saudita, ma ha finito nel frattempo per influenzare movimenti religiosi che via via nascevano nel resto del mondo arabo, in particolare in Egitto, come quelli del salafismo moderno e dei Fratelli Musulmani, primo partito politico egiziano per preferenze alle elezioni presidenziali del 2012 e che, se facessimo una sconsiderata ma efficace misurazione col metro della politica europea, non potremmo che definire un partito confessionale e conservatore (non dico di destra solo perché sarebbe davvero insensato paragonare due categorie dalle storie così diverse).

    Tale visione integralista e scismatica dell’Islam, pur non avendo nulla a che spartire con la tradizione islamica che per mille anni il mondo aveva conosciuto, ha riscosso un successo tale da aver formato generazioni di predicatori che hanno lasciato una profonda impronta nella società araba, soprattutto quando le promesse delle ideologie di importazione occidentale, come nazionalismo, socialismo e, in minor misura, liberalismo, si sono rivelate vane.

    Se la diffusione dell’ideologia islamista può spiegare – insieme alle sconsiderate politiche attuate dagli Stati Uniti e dai suoi alleati negli ultimi quindici anni – l’ascesa dello Stato Islamico in Siria e in Iraq, la stessa da sola non è sufficiente per comprendere il fenomeno del terrorismo in Europa.


    Le radici storiche e sociali del terrorismo

    Occorre a questo punto fare una considerazione di carattere storico e sociologico.

    Nel secondo dopoguerra, la ripresa economica che ha interessato l’Europa occidentale dagli anni ’50 alla metà degli anni ’70 (il cosiddetto miracolo economico, in francese les Trente Glorieuses e in tedesco Wirtschaftswunder) ha portato ad un aumento dei salari reali ed a un generale miglioramento delle condizioni di vita degli europei, determinando la nascita di una nuova classe media.

    Negli stessi anni il resto del mondo si stava emancipando dall’ormai anacronistico colonialismo europeo e dalle ex colonie un numero sempre maggiore di persone, soprattutto uomini, emigrò in Europa attratte dal boom economico. Gli stati europei hanno favorito questo fenomeno, data la necessità di disporre di nuova manodopera a basso costo, che l’immigrazione interna al continente non poteva più offrire: in Belgio per esempio, ai minatori italiani seguirono progressivamente lavoratori magrebini.

    Si trattava di un’immigrazione prettamente economica, ritenuta temporanea sia dai governi che dagli stranieri, e che giustificava perciò una scarsa propensione all’integrazione e una sempre maggiore emarginazione nelle periferie. Il fenomeno si è tuttavia intensificato e da temporaneo è divenuto stabile: inutile ricordare in questa sede l’entità che ha assunto.

    Oggi in Europa vi sono innumerevoli comunità straniere, alcune fuggite anche da scenari di guerra, molte senza dubbio non vivono in condizioni ottimali neppure qui. Indiani, pakistani, cingalesi, peruviani, senegalesi, cinesi, vietnamiti, bengalesi, ecuadoregni.

    Eppure il terrorismo europeo del terzo millennio, presentato come la manifestazione di una crisi di rigetto nei confronti di un’Europa che non ha voluto integrare (o con la quale forse non ci si è voluti integrare), interessa gli esponenti di una comunità in particolare, quella araba, la quale forse è quella che più si è sentita smarrita all’impatto con il mondo occidentale.

    Ghurba, questo è il termine con cui in arabo si definisce quella sensazione – propria soprattutto delle seconde generazioni – di smarrimento in un paese che dopotutto è casa propria, nostalgia di una patria ancestrale e sfuggente, una sorta di “saudade araba” carica di confusione, forte del divario culturale tra un’Europa sempre più secolarizzata e sempre più laica ed un Islam che rimane l’unico appiglio a cui aggrapparsi per non perdere completamente la propria identità.

    Ed è proprio su questa confusione che i promotori di un Islam radicale fanno leva, attirando soprattutto giovani che già hanno intrapreso la via della criminalità, per i quali il passaggio al jihadismo non è altro che un “salto di qualità”.

    Questi possono contare su una rete che si sviluppa su più livelli: quello familiare-comunitario che offre protezione e supporto (come a Molenbeek), quello di alcune moschee e centri islamici più o meno ufficiosi che si occupano di dare una formazione ideologica (e che possono anche aver ottenuto il riconoscimento da parte dello Stato) e infine quello etereo ma fondamentale di internet, con cui i terroristi o aspiranti tali si coordinano, si formano e apprendono le tecniche di terrore che applicheranno per raggiungere il proprio obiettivo: il martirio.


    Come reagire

    Come possono i paesi europei far fronte ad un terrorismo che non è più un fenomeno “di importazione” ma che oramai ha messo le radici anche nel tessuto sociale del nostro continente? La soluzione non è univoca, ma qualsiasi saranno le decisioni prese dai governi, questi non potranno ignorare i seguenti punti:

    1) I servizi segreti francesi e belgi hanno dimostrato in questi mesi la loro impotenza di fronte ad attentati che non sono stati in grado di prevenire. Poco cambierà se i servizi segreti nazionali continueranno a non collaborare. In questi tempi è difficile immaginare grandi passi in avanti nel processo di integrazione degli stati membri dell’Unione, tuttavia gli eventi che stiamo vivendo ci indicano senz’altro uno degli ambiti in cui gli europei saranno quasi costretti a mettere da parte gli egoismi dei singoli Stati e a far fronte comune: quello della sicurezza, dunque quello delle forze armate e dei servizi segreti.

    2) Un intervento risolutivo contro Dāʿish potrà anche non risolvere i problemi del terrorismo in Europa, ma è difficile immaginare che la presenza dello Stato Islamico in Medio Oriente favorirà la stabilità nella regione. Intervenire in Siria e in Libia, che sia militarmente o diplomaticamente (ma sul serio!), dovrebbe essere considerato come un’assunzione di responsabilità da parte di un Occidente che ha concorso a creare instabilità nella regione a danno prima di tutto delle popolazioni locali.

    3) La gestione dell’immigrazione: il terrorismo islamista europeo di oggi è figlio dell’immigrazione di ieri. La minaccia jihadista non deve distoglierci dall’impegno nel gestire la crisi dei rifugiati, tuttavia è un monito che deve farci comprendere come l’integrazione sia un fattore essenziale se davvero vogliamo accogliere in maniera stabile milioni di stranieri entro i confini europei. Integrare significa assimilare un elemento prima estraneo in una matrice comune. Siamo noi italiani e noi europei capaci di proporre un’identità e una matrice culturale forti che possano confrontarsi alla pari con queste nuove realtà?

    È difficile immaginarsi che gli Stati europei siano in grado di affrontare queste tematiche senza un impegno congiunto e coordinato. Saranno le decisioni prese dai nostri governi nei prossimi mesi, insieme soprattutto a ciò che questi attentati avranno cambiato (o non avranno cambiato) in noi, a suggerirci quale futuro ci aspetterà per questa Europa.


    Alessandro Agnitti


    Per approfondire

    - Carlo Pannella, Il libro nero del Calffato , Bur, 2015
    - Samir Kassir, L'infelitità araba, Einaudi, 2006

    Edited by Alessandro Agnitti - 20/5/2016, 23:18
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