1. Semplicemente "Il Boss"
    Springsteen: il perdente fortunato che ha conquistato l'America e il mondo ed è diventato leggenda

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    By Rachele Pellegrini il 11 July 2016
     
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    “Fatevi sentire, giovani musicisti, fatevi sentire! Aprite le orecchie e aprite il cuore. Non prendetevi troppo sul serio e prendetevi sul serio come la morte. Non preoccupatevi e preoccupatevi di star male. Abbiate una fiducia di ferro in voi stessi, ma dubitate sempre: vi tiene svegli e all’erta. Pensate sempre di essere i figli di puttana più fichi della città, e pensate sempre che fate schifo! Cercate sempre di tenere vive nel cuore e nella mente due idee completamente contraddittorie. Se riuscite a non diventare matti, vi ritroverete più forti. E restate tosti, restate affamati, restate vivi. E quando stasera uscirete sul palco per fare casino, fate conto che sia tutto ciò che abbiamo. E poi ricordate che è solo rock’ n’ roll.“

    (Bruce Springsteen, 2012)



    Oggi è impegnato nel suo diciottesimo tour mondiale e ormai tutti ne abbiamo sentito parlare, ma quarant’anni fa lui era un adolescente a caccia di sogni e Jon Landau il primo fortunato critico musicale a dichiarare: “ho visto il futuro del rock and roll e il suo nome è Bruce Springsteen.” La sua successiva carriera, la ricca discografia in studio e live, le canzoni iconiche, le infinite folle di fan ai concerti e i circa sessantacinque milioni di dischi venduti nel suo paese più i centoventi nel resto del mondo hanno decisamente confermato la previsione.

    Nasce il 23 settembre 1949 a Long Branch, nel New Jersey e mentre nessuno immaginava che sarebbe diventato il Boss, Bruce cresce in una famiglia della classe operaia dove la vita non è sempre facile, in un ambiente crudo a cui va il merito della particolare visione politica di cui sono intrise molte delle sue canzoni. Nel 1956 quel ragazzo considerato strano per l’inespressività che si porta sempre in giro vede Elvis all’ Ed Sullivan Show e vive quello che all’inizio ogni musicista è chiamato a vivere e che lui stesso ha definito la propria genesi: “ quella sera capii che un bianco poteva creare qualcosa di magico, che non siamo inevitabilmente condizionati dall’ambiente in cui cresciamo, dal nostro aspetto o da un contesto sociale opprimente. E il mio contesto sociale lo era decisamente. Era possibile evocare il potere della propria immaginazione e trasformare il proprio io.” Così per il quindicesimo compleanno si fa regalare la sua prima chitarra e trascorre i sette anni successivi a mostrare i risultati della propria incessante esercitazione suonando nei bar con band locali e costruendosi la reputazione di giovane chitarrista più tosto tra il Jersey Shore e lo stato della Virginia.

    Gli anni settanta sono agli albori quando finalmente porta la sua chitarra e una manciata di canzoni a New York City tra gli allora guardiani della cultura. Snobbato dalle case discografiche, le sue ambizioni vennero considerate ridicole, così come la sua canottiera, i jeans strappati e il giubbotto di pelle con la spilla dell’Elvis Presley Fan Club non lo fecero sembrare niente di più dell’ennesimo hippie coi capelli lunghi infarcito di eroismo rock‘n’ roll. Ma per fortuna, in un’epoca dove Elvis aveva liberato i corpi e Dylan le menti, celebri cacciatori di talenti come John Hammond ( che aveva scoperto Billie Holiday, Bob Dylan e tanti altri) imprecarono contro i colleghi che si rifiutavano di vedere nell’entusiasmo di Springsteen e nella sua voce roca il vero spirito rock.

    I primi due album e il favore altalenante del pubblico sembrarono dare ragione agli scettici ma nel 1975, Springsteen fece uscire Born to run, un album ricco di quei personaggi dannatamente veri che avrebbero abitato la sua musica per decenni. L’album incoronò Springsteen Re del vicolo e lo lanciò nel firmamento delle rock star. Di singolo in singolo Bruce divenne prima “il nuovo Dylan” poi la sua autenticità che non meritava di essere descritta tramite un paragone fece di lui semplicemente “il Boss”.

    Con i successivi album, alcuni dalle tinte fosche come gli immortali The River e Nebraska, Springsteen divenne esponente d’eccellenza del Realismo americano. Con i suoi ritratti di vita quotidiana Bruce gridava al suo pubblico ormai globale l’ingiustizia su cui l’America degli anni sessanta e settanta aveva costruito il proprio orgoglio e il proprio potere. Non era l’America del mito ma quella delle battaglie della gente dei sobborghi contro la monotonia e l’impotenza, quella dei pazzi e degli assassini, delle violenze, delle frustrazioni, dei sogni di speranza e di tutti i Tom Jones costretti alla vita della strada o allo sfruttamento degli orfanotrofi.

    Già voce ed eroe di un mondo operaio affamato di riscatto, Springsteen continuava a lasciarsi dietro folle di convertiti dopo ogni concerto mentre le sue apparizioni dal vivo, che spesso si protraevano ininterrottamente per oltre tre ore, cominciavano ad assumere quel quid di leggendario che oggi fa di lui uno dei più grandi e indiscussi performer di tutti i tempi. Non sono pochi a riconoscergli lo status di padre del mood da frontman che ha influenzato le successive e contemporanee generazioni di rockers.

    Non stupisce che nessuno dopo essere uscito da un suo live esiti a conferirgli un posto d’onore tra i corollari della musica dei nostri tempi. Bruce Springsteen è tutto ciò che un appassionato di musica vorrebbe dal proprio idolo: è l’umanità, la professionalità, la passione e l’entusiasmo che quarant’anni di successo non sono riusciti ad intaccare. È l’artista che non delude, l’artista impegnato che con il suo inconfondibile graffio non vende ma lotta, l’artista che non domina quarantamila persone dall’alto di un palco ma che con inesauribile riconoscenza a loro si da e con loro si emoziona. Nessuno alla fine penserà che non sia valsa la pena perché Springsteen è l’artista salito dalle strade delle fatiscenti cittadine industriali di tutto il mondo, è il perdente fortunato che non sale sul palco per passare il tempo ma per un concerto che faccia godere agli ascoltatori tutti i centesimi spesi, ogni volta il più bello della loro vita: perché “questo” per chiudere con le sue parole “è un codice d’onore”.


    Rachele Pellegrini
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