1. Il Regno Unito lascia, la politica si indebolisce
    La scelta del referendum racconta di una politica in crisi: la stessa che dovrebbe sostenere pace e diritti. Conquiste che già oggi – ma soprattutto domani – sono sempre meno scontate.

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    By Marco Ridolfi il 8 July 2016
     
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    Il voto britannico ha sancito la fine (politica) di un’intera leadership: mentre Cameron si dimette, il suo più probabile successore, Boris Johnson, si è già bruciato e Michael Gove, che lo aveva silurato, non si guadagna l’appoggio del partito. I laburisti sfiduciano platealmente Jeremy Corbyn che non cede; il trionfatore Nigel Farage lascia. È la roulette russa de il Cacciatore di Michael Cimino: non c’è nessuna differenza fra vincitori e vinti, tutti riportano i segni di ciò che è successo. Ma se Mike Vronsky ed i suoi si erano ritrovati nell’inferno senza volerlo e meritarlo, non è così per chi comanda(va) nel Regno Unito: un’intera classe dirigente si è dimostrata terribilmente mediocre, perché ha creduto di usare impropriamente una consultazione referendaria senza pagarne le conseguenze.

    La Brexit insegna ad usare con cautela l’istituto referendario in una democrazia rappresentativa. Non si carica il voto di un valore che non ha; non si usa la consultazione popolare per vincere le elezioni e mettere fine alle lotte interne e fra i partiti. Non è semplicemente avventatezza politica: è un completo misunderstanding. Il referendum è uno strumento potentissimo; se viene indetto beffandosi del buon senso non è più la chiara affermazione della democrazia ma il canto del cigno della rappresentanza. È come ammettere che i delegati non sono in grado di svolgere il compito per cui sono stati eletti. E giocare con gli strumenti democratici significa disprezzarne il valore, disconoscerne l’importanza. È l’atteggiamento di chi ha scordato cosa dovrebbe proteggere e far funzionare bene. L’atteggiamento di chi guarda al sistema in funzione di se stesso e non il contrario. Il dimissionario David Cameron ha pericolosamente giocato d’azzardo ed ha perso. Ha sottovalutato il sentimento di insofferenza dei cittadini e sovrastimato le proprie capacità di politico. Si è illuso di poter manovrarne il risultato: lo ‘choc’ del voto è infatti quello di un sordo che non ha voluto ascoltare; quello di un superbo che credeva che il malcontento non fosse così generalizzato e nemmeno così forte.

    La cattiva politica è responsabile del referendum: non solo perché lo ha indetto ma anche perché l’esito è una risposta dei cittadini all'incuranza verso di loro. Il risultato è infatti figlio dell'incapacità di pensare un’Europa veramente diversa, che non sia semplicemente il mantenimento dello statu quo. Qui la politica rivela tutta la sua povertà mentre i partiti la propria inadeguatezza. A questi si sono sostituiti comitati d’affari, che hanno progressivamente sottratto alla politica i suoi campi d’azione, decretando la sua fine. Mancano idee e progetti che si concentrino su politiche sociali ed abbandonino l’alta finanza. Manca la costruzione di una fascinazione che permetta di unirsi sotto una bandiera comune: ad una visione di “un’Europa dei banchieri e non dei popoli”, non si sa rispondere. Debole ed inetta, questa rappresentanza distrugge sé stessa e mette a rischio l’intera Unione. Infatti una politica concentrata unicamente su di sé, incurante delle richieste dei cittadini e priva di una visione del futuro non fa che alimentare il sentimento di ostilità verso l’Europa. In questo senso, i problemi della Gran Bretagna sono quelli di tutti i paesi. Si è scelto di costituire prima un’Europa economica, rimandando ad un futuro indefinito l’unione politica e la sua riflessione. Si è scelto ed è stato uno sbaglio, perché oggi a difendere quell’assetto costruito per la pace c’è un sistema di partiti in crisi. L’idea di rappresentanza lentamente si sgretola sotto la sua (forse) endemica debolezza e ciò che rimane è un gigante a cui manca il terreno sotto di sé.

    Il disagio sociale e la consapevolezza di un sistema quasi al collasso si esprimono nelle forme più svariate. Uno dei pericoli è che si concretizzino quelle più estreme, razziste e xenofobe. Tutte le democrazie del Vecchio Continente stanno passando una fase difficile; tutte si aggirano pericolosamente vicino al confine della democraticità. E non c’è chi dovrebbe difenderle. Un futuro democratico e di pace non è una certezza, come non lo è il rispetto di quei diritti per cui tanto faticosamente si è lottato. Le conquiste raggiunte non sono dei trofei da mettere in vetrina: mantenerli significa rinnovarli continuamente, difenderli da ogni tipo di minaccia e guadagnarseli giorno dopo giorno. La buona politica, autenticamente vera, non è quindi semplicemente un sogno, è una necessità.

    Di funamboli che si avventurano sul filo delle regole, non abbiamo bisogno. Di saltimbanchi candidati alle elezioni, nemmeno. Politici timidi e povertà di idee possono essere la nostra rovina. Se la politica non torna ad essere politica, il futuro è in mani ignote. Se vogliamo una democrazia forte, dobbiamo riscoprire il fair play.


    Marco Ridolfi


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