1. Eichmann o l'inconsistenza del male
    L’agghiacciante normalità del male ci ricorda che non è lontano da noi. E che forse non ha spessore.

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    Emmanuel Lévinas
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    Hannah Arendt
    storia
    By Marco Ridolfi il 31 May 2016
     
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    Il 31 maggio del 1962, Adolf Eichmann venne impiccato. Il coordinatore della “soluzione finale” del Terzo Reich scontava la pena decisa dopo il processo in Israele. Eichmann non era un personaggio importante nelle decisioni politiche della Germania Nazista, non aveva ruoli di spicco e mai aveva superato il grado di Tenente colonnello . Tuttavia si era impegnato perché il genocidio degli Ebrei avvenisse nella maniera più efficiente. Si è sempre sottolineata la sua normalità, il suo essere come gli altri, non un pazzo, non un “malvagio” in senso tradizionale. La sua linea di difesa era quella del semplice burocrate che aveva svolto il suo lavoro. Dimostrazione vivente di come la follia o le “motivazioni cattive” non siano il giusto modo di descrivere un operato simile. Significherebbe infatti confinare il nazionalsocialismo in un angolo oscuro della storia, eliminarlo come un corpo estraneo. Dimenticare la suggestiva immagine di Cuore di tenebra: l’uomo che, volendo rischiarare il buio con la propria luce, non scopre che un’oscurità ancor più nera. Perché il cuore di tenebra non è altro da noi, ma è in noi.

    E’ caratteristica occidentale proiettare sul diverso quelle preoccupazioni, quei mali che in realtà sono intimamente nostri. Ci formiamo delle rappresentazioni dell’Altro che niente hanno a che vedere con la realtà. Maschere e fantasmi senza alcuno spessore “ontologico”, se non il nostro. A esemplificarlo, le battute finali del film L’ultimo Re di Scozia: «Tu pensavi: “partirò per l'Africa, e lì giocherò all'uomo bianco con gli indigeni” », dice il dittatore Idi Amin Dada al suo medico britannico. «Ma noi non siamo un gioco, Nicholas, siamo veri ». Come dire che il popolo africano non è frutto dell’immaginazione occidentale, ma che esiste e che bisogna farci i conti per quello che è. Una lezione che vale anche per i nazisti.

    Molti cattivi dei fumetti si ispirano alla Germania Nazista. Sono gli psicotici dai deliri di onnipotenza, i malvagi che vogliono conquistare il mondo. I cattivi per eccellenza: un’immagine che non rende pienamente giustizia. Una “maschera” che rischia di farci cadere in una pericolosa illusione, che il “male” sia altro da noi. Quando invece dovremmo pensare al nazismo come qualcosa di tipicamente umano e nostro figlio legittimo. Persone come noi e che tutti potremmo diventare: è la storia di Eichmann.

    Non c’entra l’intelligenza; essa anzi è terribilmente complice di quelle azioni criminali. Senza un apparato così macabramente efficiente infatti, un genocidio di tali dimensioni non sarebbe mai potuto accadere. Senza una razionalità calcolante, non ci sarebbe stata alcuna Shoah. Non è la ragione a determinare la qualità delle azioni; col bene e col male ci confrontiamo al di là delle nostre capacità di ragionamento. Non casualmente, per Aristotele, la conoscenza di ciò che è bene fare si acquista soprattutto attraverso un processo di abitudine: le azioni virtuose si comprendono vedendole, facendole e sentendole. Inseriti in un contesto, sociale e politico, in cui queste azioni siano coerenti con gli altri insegnamenti , con ciò che ci viene richiesto. In altre parole, è impossibile essere generosi in una società che elogia il guadagno fine a sé stesso. Solo così si comprende il “che” , il significato di “buona azione”. Senza di esso, nessun ragionamento sul bene e sul male ha veramente senso, dato che non si sa – letteralmente – di cosa si parla.

    Non è chi non ragiona la persona più temibile, ma chi volge la sua intelligenza al male e, soprattutto, – questo il caso di Eichmann – chi lo fa senza nemmeno sapere cosa sia. Non c’è mai stata un’adesione, un’accettazione di valori distorti, solo una totale mancanza di riflessione. Nemmeno una vita di cattive azioni è una spiegazione esaustiva. Quindi non è la solidità di certi valori a spiegare il comportamento di persone come Eichmann. Né la motivazione del perché c’è chi non si piega al male. Il problema è ancora più a monte, deve riguardare ciò che accoglie l’azione dell’abitudine. Hannah Arendt vede la soluzione in Socrate: individui come Eichmann non hanno la capacità di parlare con sé stessi; hanno perso la modalità di relazionarsi con quell’io che costantemente li sottopone a giudizio sul proprio operato. È il dàimon socratico; l’insostenibile convivenza con la parte colpevole di sé. E’ un ragionare che significa parlare. Solo dialogando con sé stessi, con quell’io “inquisitore”, è possibile evitare il male. Solo chiedendoci se possiamo sopportare di compiere certe azioni si accetta un sistema di valori.

    Il senso dello sguardo, del confronto si accentua fortemente nella riflessione di Emmanuel Lévinas, che tuttavia vuole rompere dalla tradizione a cui la Arendt guarda. Infatti è solo nell'incontro con l'Altro, col Diverso da noi, che assume senso la domanda “è giusto?”; quell’Altro a cui sono chiamato a rispondere. Se fossi solo, isolato, invisibile; se non ci fossero gli sguardi di altri che mi guardano e a cui devo rispondere, le mie azioni non sarebbero né giuste né sbagliate. Senza qualcuno di fronte a me, non avrei responsabilità. Infatti, l’hitlerismo è letto da Lévinas come l’apoteosi di un processo totalizzante del sé: un unico io che cerca di ricondurre tutto a sé stesso e stermina l’Altro. Per Arendt, il male è senza radici, senza profondità. È qualcosa di banale e superficiale, che riesce a corrompere tutto – compresi noi stessi – “perché cresce in superficie come un fungo” . Eichmann era così, un individuo estremo ma non radicale; un individuo solo, che aveva troncato irrimediabilmente il dialogo con sé stesso e con l'altro.


    Marco Ridolfi

    Edited by Marco Ridolfi - 13/6/2016, 11:53
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