L’Italia di sessant’anni fa si lascia alle spalle un ventennio di dittatura, un conflitto mondiale, una guerra sociale e civile. Di fronte, molti progetti da realizzare in un paese da ricostruire. Sono gli anni in cui l’ingegnere Pier Luigi Nervi e l’architetto Gio Ponti lavorano al Pirellone di Milano. Gli anni in cui si aprono i lavori per l’autostrada del Sole. A Roma, intanto, si pensa a riallacciare rapporti culturali internazionali in un vecchio scantinato vicino a via Veneto. All’
Open Gate Club, infatti, si accolgono stranieri – soprattutto Americani – intrattenendoli con proiezioni dei migliori film in circolazione. È qui che inizia la storia dei David di Donatello.
Nel 1956, si tiene la prima edizione; il luogo
il cinema Fiamma di Roma. Il premio lo confeziona Bulgari in oro massiccio.
Gina Lollobrigida e
Vittorio De Sica vincono come miglior attrice e attore protagonisti per
La Donna più Bella del Mondo e per
Pane, Amore e… .
Walt Disney come miglior produttore straniero per
Lilli e il Vagabondo. Ben presto le premiazioni diventano un fenomeno mediatico: la televisione arriva l’anno dopo, quando la cerimonia si sposta nell’antico teatro greco di Taormina. Fra i molti premi, uno però fa sentire la sua mancanza: quello per il miglior film. Dovranno arrivare infatti gli anni settanta prima di vederlo; fino ad allora solo il miglior regista è premiato. Ma ai maestri di quegli anni il David non viene assegnato soventemente. Pasolini, ad esempio, non lo riceverà mai. Visconti dovrà aspettare il ’71. Antonioni è premiato solo per
La Notte.
Fellini lo vince, sì, per
La Dolce Vita, ma il suo
8½, che pure riceverà l’Oscar, non ha neppure una menzione.
Il ritratto dell’Italia del boom fra seduzione e smarrimento, attrazione e rifiuto, per un mondo che trasuda piacere, erotismo e suadenti promesse, non poteva che lasciare il segno. Ma un riconoscimento a
Dino Risi per
Il Sorpasso, che de “la dolce vita” è l’altra faccia – più popolaresca e meno raffinata, lontano dai locali alla moda e dalle feste ma sulla strada, nelle aree di servizio, durante il grande pellegrinaggio della domenica in festa – nemmeno l’ombra. Solo
Gassman ottiene la statuetta per l’istrionico ruolo di Bruno Cortona. Si rifarà, è vero, nel 1975 con
Profumo di Donna ma è paradossale come nemmeno
I Mostri del ’63 gli valgano il premio. E come Risi, anche
Monicelli deve aspettare il ’76 per il suo primo David, con
Amici Miei, cult della commedia all’italiana che però aveva i suoi fratelli maggiori sia ne
I soliti Ignoti, che lanciò il genere, sia ne
La Grande Guerra. Che vale il riconoscimento, almeno, a
Sordi e a Gassman per gli indimenticabili ruoli di Oreste Jacovacci e Giovanni Busacca. Fra gli attori, in questi anni sessanta, vincono coloro che rimarranno fra i più premiati:
Marcello Mastroianni e
Sofia Loren.
Ieri, oggi e domani e
Matrimonio all’Italiana valgono ad entrambi le statuette complementari, che per lei si vanno ad aggiungere ai già due riconoscimenti per
Orchidea Nera e
La ciociara.
Poi arrivano gli anni ’70. Arrivano gli anni di piombo. La
dolce vita finisce: è il tempo delle contestazioni, del terrorismo, della crisi petrolifera. Il jazz spensierato di Nino Rota si abbassa mentre si accendono le tonalità thriller di Ennio Morricone. E come un’ombra lugubre, poco dopo
la strage di piazza Fontana, esce
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di
Emilio Petri. Protagonista un autoritario e insieme buffonesco
Gian Maria Volonté che interpreta il ruolo di un assassino che agisce sotto protezione del potere: il simbolo di un’Italia oscura, a cui va sempre tutto bene, qualunque cosa accada. Volonté riceve il David ma non Petri: deve aspettare l’anno successivo con
La classe operaia va in paradiso, che dell’alienazione del lavoro in fabbrica e delle proteste di quegli anni è un manifesto. Di un’altra alienazione, interiore, camaleontica, parla un altro assassino:
il Conformista di Bertolucci. Ad incupire ulteriormente la situazione, ci pensa, paradossalmente, Alberto Sordi in una veste meno nota, quella drammatica, nella parte di Giuseppe Di Noi,
Detenuto in attesa di giudizio. L’incubo di un uomo comune, costretto in carcere a trattamenti umilianti: un film-denuncia di
Nanni Loy che premia Sordi. E sempre Sordi decreta, per alcuni, un’altra fine – quella della
commedia all’italiana – ne
Un borghese piccolo piccolo, che riceve ben quattro David, fra cui uno per l’attore romano, uno a Monicelli, uno come miglior film. La satira sociale del decennio precedente finisce; la risata scompare. E
Monica Vitti, in un momento dove sembra che non ci sia niente da ridere, vince più spesso come miglior attrice. Sempre in parti comiche.
Eppure basta aspettare il 1981 per incontrare una nuova generazione di comici:
Ricomincio da Tre è il primo film di
Massimo Troisi che lo porta al successo e gli vale due David, miglior attore protagonista e miglior film.
Borotalco dell’’82 vince su
Il marchese del Grillo di Monicelli;
Verdone vince Sordi. Ma gli anni ’80 vedono trionfare anche i film di
Ettore Scola. Di David ne prende addirittura sei degli otto della sua collezione, tuttavia nessuno per il suo capolavoro
C’eravamo tanto amati. A vincere sono
La famiglia e
Ballando Ballando, due film che della commedia dai toni graffianti e grotteschi tipici di Scola non hanno niente. Un errore di valutazione, sembra, come quando – e questo lo si dice con un po’ di malizia –i film di Sergio Leone venivano chiamati ancora
“spaghetti”. Per fortuna, poi, ci ripensarono. Sul finire del decennio, fa la sua comparsa un altro regista,
Giuseppe Tornatore, che tuttavia dovrà aspettare il ’96 per ricevere un David.
Nuovo Cinema Paradiso, nonostante le nomination, ne strappa solo uno per la migliore colonna sonora, di Ennio Morricone.
Gli anni ’90 vedono partecipare alla competizione una schiera di nuovi registi: sono gli anni di
Gianni Amelio con
Porte Aperte e
Ladro di Bambini,
Francesca Archibugi e
Gabriele Salvatores, vincitori
ex aequo nel 1991 per il miglior film con
Verso Sera e
Mediterraneo. Successo che quest’ultimo bissa agli Oscar. E ancora
Francesco Rosi con
la Tregua e
Paolo Virzì con
Ferie d’Agosto. Il suo
Ovosodo invece, in gara nel ’98, non riesce a competere con
La Vita è Bella di
Benigni, che di David ne prende nove. C’è poi anche
Nanni Moretti con
Caro diario e, nel 2001, con
La stanza del figlio. Ma come per Scola, anche Moretti è premiato solo per un aspetto del suo cinema, quello più privato.
Negli anni Duemila c’è molta varietà. Come miglior regista, accanto a Silvio Soldini, Gabriele Muccino, Pupi Avati, c’è Ermanno Olmi, Marco Tullio Giordana, di nuovo Giuseppe Tornatore, Andrea Molaioli. E ancora Marco Bellocchio, Daniele Luchetti, i fratelli Taviani, Francesco Munzi. Due però i nomi che ricorrono frequentemente:
Matteo Garrone e
Paolo Sorrentino. Garrone vince per
Gomorra e
Il racconto dei racconti. Ma è
Gomorra che si lega più facilmente ad una serie di film –
Diaz e
Anime Nere di Munzi, ad esempio – che mettono in scena un’Italia violenta, che lotta con o per il potere. Potere ben rappresentato dal Giulio Andreotti de
Il Divo. Che conferma Sorrentino come un abile prestigiatore di immagini, in una maniera evocativa e raffinata che lo distingue dagli altri. In vero, vince solo nel 2005 con
Le conseguenze dell’amore. Ma da allora, tutti i suoi film -
This Must be the Place, che pure strappa un David per la miglior sceneggiatura,
La Grande Bellezza,
Youth – non mancano dalle nomination. Nel 2014 è Virzì che gli soffia il premio con
Il capitale umano. Ci sarà però la notte degli Oscar per rifarsi. Il 2016 è l’anno di
Lo chiamavano Jeeg-Robot di un esordiente, Gabriele Mainetti: sette statuette su sedici candidature.
Lo si è visto però, il David di Donatello non è tutto il cinema italiano.
Per fortuna, direbbe qualcuno. Ma qualunque giudizio si voglia darne, si tratta pur sempre di un ottimo specchio che riflette i gusti del pubblico e della critica in sessant’anni di storia d’Italia. Gusti che con questa storia sono legati, modi d’espressione degli artisti che in maniera complementare la raccontano. Perciò anche se né belli né meritati, un loro valore questi premi ce l’hanno.
Marco Ridolfi