Replying to Agli Stati Uniti serve un Oki (se non un antibiotico)

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  1. Posted 26/7/2016, 12:46
    Gli Stati Uniti hanno sempre avuto un rapporto complicato con il concetto di democrazia. Tradizionalmente considerato il paese democratico per eccellenza, in realtà ne è endemicamente refrattario. Ai padri fondatori la parola suonava così male che non la inserirono nemmeno nella Costituzione. Troppo vicina all’idea di una dittatura popolare per trovare spazio nelle istituzioni della neonata repubblica. Le volatili decisioni di una maggioranza incolta erano infatti temute quanto l’assolutismo di un monarca. La ricetta statunitense prevedeva invece una forte idea elitista: coloro che si occupavano di politica dovevano essere pochissimi illuminati, a distanza di sicurezza dal popolo e dalle sue pericolose decisioni. Da qui la centralità del Congresso ed il limitato potere del Presidente, aggrovigliato in una intricata matassa di veti e bilanciamenti che evitano la tirannia. Oggi tuttavia si palesano i pericoli della gestione di una ristretta élite. I framers non videro che dietro la loro costruzione poteva celarsi il germe del suo stesso dissolvimento.

    Anzitutto, le costosissime campagne elettorali accrescono il peso dei grandi finanziatori. Dopo la sentenza della Corte Suprema del 2010, Citizen united vs. Federal Election Commission, ogni individuo o società privata può finanziare senza limiti un candidato, purché la spesa sia indiretta, ossia sotto forma di spot elettorali. È la legalizzazione del sistema dei super pacs, il cui unico limite consiste nel rendere pubblici i nomi dei donatori. Ostacolo facilmente superato coi “gruppi 501”, associazioni no-profit per cui non vale quest’obbligo: ufficialmente, conducono attività di interesse pubblico, ma niente vieta loro di realizzare spese politiche indirette. Il già dispendioso costo della corsa elettorale quindi lievita. “Ho sempre sostenuto che il potere sia più importante dei soldi, ma quando si tratta di elezioni, i soldi danno al potere filo da torcere”, dice Frank Underwood all’inizio della terza stagione di House of Cards. La cronaca gli dà ragione: se l’obiettivo è vincere, non si può fare a meno di una larga disponibilità finanziaria. Non sempre gli sfidanti hanno grandi aspirazioni; alle primarie, ad esempio, molti si gettano nella mischia solo per ottenere visibilità o vendere più compie del proprio libro: sono i casi di quasi tutti gli sfidanti di Mitt Romney nel 2012. Ma chi aspira veramente alla leadership deve essere capace di raccogliere finanziamenti consistenti in breve tempo. Perché più che confronto fra programmi, le elezioni sono grandi campagne di marketing, dove si cercano di intercettare gli umori degli elettori e le scelte dei politici sono orientate da sondaggi ed esperti in comunicazione.

    È quindi ben più conveniente ricevere l’endorsement di un grande finanziatore piuttosto che quello del proprio partito. E questo è il problema: i super-ricchi, quando non scendono a loro volta in politica, influenzano il dibattito inserendovi temi a loro cari. Si legano strettamente a chi vince le elezioni. Sostituiscono i partiti nel selezionare la classe dirigente, scegliendo i candidati in summit chiusi al pubblico. Ne organizzano uno a cadenza semestrale, ad esempio, i fratelli Charles e David Koch, industriali siderurgici e petroliferi, a cui partecipano sovente Jeb Bush, Scott Walker, Paul e Ted Cruz. Analogamente accade col magnate dei casinò Sheldon Adelson, ebreo ortodosso, ottavo uomo più ricco del mondo, interessato ad impedire la legalizzazione del gioco d’azzardo on line, l’apertura con l’Iran e il negoziato israelo-palestinese. Per i Democratici, il nome da corteggiare è Tom Steyer, molto sensibile ai temi dell’ambiente: secondo molti osservatori, ci sarebbe la sua mano dietro la mancata realizzazione dell’oleodotto Keystone XL nel 2014. Inoltre, tale è l’opacità del sistema che non è ozioso pensare che aziende o potenze straniere possano influenzare il dibattito interno.

    Ulteriore pressione dall’esterno è esercitata dai lobbisti. Categoria radicata nelle istituzioni americane, ma che dopo quasi due secoli e mezzo ne è divenuta parte essenziale. Profondi conoscitori dei meccanismi delle istituzioni, detengono saldamente il potere burocratico: si tratta spesso di ex politici estromessi dal potere che svolgono le loro funzioni nell’interesse dei loro clienti. La loro conoscenza, esperienza ed influenza sono molto più rilevanti di quelle di qualsiasi politico. Un lobbista fa da intermediario fra oligarchi e candidati, riporta gli umori di chi lo ingaggia; istruisce i neoeletti e guida l’opinione dei congressisti. Consiglia ministri e presidenti. Per promulgare una legge, ad esempio, è indispensabile: in primis perché la scriva, poi perché conosce l’iter legislativo. Soprattutto, sa dove e quando fare pressione affinché il progetto riesca. Perciò non è raro che grandi aziende ingaggino validi sostenitori della propria causa. Un lavoro ben retribuito che sfrutta l’inadeguatezza delle leggi in merito, facilmente aggirabili.

    La presenza di grandi dinastie in politica adombra ancor più il sistema. Non serve ricordare la lotta per la presidenza di due famiglie come quelle dei Clinton e dei Bush, che stava per riproporsi anche in queste elezioni. Chi è saldamente legato al proprio seggio sono i membri del Congresso, in teoria rieleggibili all’infinito: eccetto brevi interruzioni, i Frelinghuysen hanno un proprio esponente dal 1793. I Kennedy ne hanno avuto quasi sempre uno negli ultimi cinquant’anni. Per non parlare dei numerosi figli ed eredi di ex parlamentari e governatori. Un incancrenirsi del potere che favorisce la nascita di privilegi ed impedisce il benefico ricambio della classe dirigente.

    La politica gestita da pochi facoltosi non è un bene per i cittadini, perché gli interessi dei privati collimano solo con quelli di una minoranza. Un sistema che prosegue in questa direzione, sempre più distante dai suoi elettori, non può che disilluderli ancora di più e consegnare le istituzioni nelle solite mani. Fortunatamente, non è ancora il collasso della democrazia; tuttavia, queste tendenze avvertono che i cambiamenti non sono necessariamente per il meglio. Intervenire è possibile: meglio evitare però tanto le cure da cavallo quanto l’omeopatia. Già oggi una compressa di tachipirina non basterebbe.

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