Replying to La via della (dis)integrazione

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  1. Posted 25/7/2016, 15:21
    Parigi, Lione, poi ancora Parigi e infine Nizza. La Francia sembra preda della sua più grande ossessione fin dai tempi della guerra d’Algeria, lo spettro del “nemico interno”. È più che lecito chiedersi però chi ha creato questi fantasmi, chi ha reso questo spettro una realtà in un paese che dell'integrazione aveva fatto un vanto, l’intégration répubblicane.

    La Francia è forse il paese dell’Europa contemporanea che da più tempo ha dovuto affrontare le sfide connesse al fenomeno dell'immigrazione. Le tensioni sociali della guerra d’Algeria erano già sfociate cinquant’anni fa in una stagione di repressioni e attacchi terroristici, che avevano creato tensioni e pregiudizi difficili da scardinare. L’integrazione alla francese nasce con Mitterrand proprio per mettere fine a quelle tensioni, soprattutto sociali, accentuate nei decenni successivi alla fine della guerra e si inseriva alla perfezione in quel mito di riconciliazione nazionale che ha provato a rappresentare, con successi alterni, l’era Mitterrand. Nel modello ideale l’integrazione non è una questione culturale, ma piuttosto un dilemma sociale, che dovrebbe risolversi nella riqualificazione delle periferie e nella promozione di nuove élite fra le giovani generazioni uscite dall'immigrazione; nella realtà tuttavia la prima cohabitation e poi la fine dell’era Mitterrand portano solo ad un abbozzo del grande progetto integrazionista.

    Il 2001 è l’anno della svolta decisiva: sull’onda del panico collettivo seguito agli attentati di settembre negli Stati Uniti e con i socialisti relegati all'opposizione dal nuovo presidente Chirac e dall’astro nascente di Sarkozy, l’integrazione viene spostata sempre più spesso nell’agenda della sicurezza nazionale e finisce per risolversi essenzialmente in un problema culturale. La laicità francese sembra diventare improvvisamente inconciliabile anche con le più innocue pratiche connesse alla religione musulmana. Anche le parole cambiano, come ad esempio il termine usato per riferirsi al velo islamico, che da un neutro foulard diventa nei comizi politici le voile, che rendeva più facile l’identificazione del soggetto islamico col terribile nemico dal volto coperto. Nel 2004 una legge proibisce il velo nelle scuole e nel dibattito che segue molti studiosi anche illustri prendono le difese del testo legislativo nel nome della laicità francese; oggi molti di loro, fra cui spicca Patrick Weil, si pentono di aver sostenuto una legge dai risultati così discriminatori.

    Alla battaglia culturale lanciata dal governo gollista risponde nel 2005 la richiesta di migliori condizioni sociali da parte delle comunità immigrate relegate in quelli che erano e tuttora sono dei veri e propri ghetti fatiscenti alla periferia delle grandi città. Nella banlieue di Parigi scoppia una piccola guerra civile, che il ministro dell’interno Sarkozy tenta di far passare come rivolte a sfondo islamista. I fatti lo smentiscono: nessuna organizzazione religiosa, solo la rabbia e la frustrazione di chi un futuro non ce l’ha, di masse di disoccupati, francesi da generazioni, ma mai davvero accettati dalla nazione che aveva dato loro una cittadinanza. L’onda viene comunque cavalcata, investendo in parte anche la media borghesia cittadina di origini immigrate che si era creata negli anni di Mitterrand, e l’islamofobia partorisce fra le altre cose un’altra e più restrittiva legge sul velo che porterà a nuove rivolte a Trappes nel 2013. La questione sociale non viene più toccata nemmeno col ritorno dei socialisti al potere, se si eccettua il timido tentativo del governo Ayrault di riqualificare periferie come Aubervilliers, a nord di Parigi, tentativo infrantosi nel momento in cui Hollande ha sostituito il suo governo con quello di Valls.

    L’excursus storico finisce nel punto dove siamo arrivati oggi: nella periferia delle città più multiculturali come Lione, Marsiglia e Parigi, dove esistono ancora dei veri e propri ghetti , in cui lo Stato ha scelto di andare soltanto armato e in uniforme, di fronte a intere generazioni che non hanno possibilità di frequentare scuole decenti o di trovare un vero lavoro. È qui allora che prende campo il radicalismo: si insinua fra le maglie di uno Stato che tenta solo di nascondere, e non di combattere, il disagio sociale esistente fra la comunità immigrata (perlopiù da generazioni) segregata nella periferia, non solo delle città ma anche e soprattutto della società. Prende campo nel vuoto di una politica incapace di gestire il problema, fornendo quelle risposte che essa non è in grado di dare. A cadere nella rete delle organizzazioni terroristiche e del fanatismo è proprio quella generazione figlia dei moti del 2005, la cui speranza si è presto tramutata in frustrazione. La religione, da sempre la via di fuga privilegiata per chi ha bisogno di risollevarsi da una realtà oppressiva, è stata sostituita da quel suo surrogato che è il fondamentalismo, capace di intercettare non solo la necessità di dare un senso alla propria vita, ma soprattutto la rabbia di chi è stato escluso.

    Il novembre scorso su Internazionale è uscito un illuminante editoriale di Gurvan Kristanadjaja in cui il noto giornalista francomarocchino raccontava di come era riuscito ad entrare in contatto con dei veri jihadisti attraverso un falso profilo Facebook abilmente disegnato. Al di là dello sconcertante risultato imprevisto, ossia la trasformazione della sua bacheca in una vera e propria piattaforma di propaganda dello Stato Islamico, è interessante notare il profilo che ha attirato a sé l’esca del fondamentalismo: l’alter ego di Kristanadjaja è un ventenne parigino, francomarocchino e musulmano come lui, tifoso del PSG, disoccupato e con poche speranze e molti dubbi circa il futuro. Una persona normale insomma, il giovane tipico di Saint-Denis o della periferia marsigliese.

    Il target dei reclutatori è questo, sono i figli illegittimi che lo Stato si rifiuta di riconoscere. La risposta della Francia finora è stata solo una morsa securitaria che ha trovato terreno fertile nello stato d’emergenza e sporadici interventi nella guerra in Siria, il necessario per convincersi che quella sia l’origine del suo Nemico. Niente è stato fatto sul piano sociale, nessuna prospettiva di integrazione se non quella contrattualistica, che impone certe rigidi condizioni, soprattutto culturali, per un riconoscimento. Abbiamo fornito noi le bombe allo Stato Islamico, adesso dobbiamo decidere se combattere una guerra contro chi accende la miccia o privarlo dei suoi strumenti. E se il terrorismo si combattesse con la riforma sociale piuttosto che con i fucili?

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