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  1. Posted 1/7/2016, 22:01
    C’è qualcosa di meraviglioso e raccapricciante nell’epoca contemporanea, ci sono infinite possibilità, eppure si preferisce rimanere immobili: si ha paura del cambiamento ed il terrore della stabilità. La condizione postmoderna, così contraddittoria e sottile invade l’uomo nella sua interezza, nella sfera personale, relazionale e sociale, si riflette nella società, nella storia, nelle istituzioni. L’assetto politico mondiale è fra i più variegati mai visti, se ne vedono di tutti i colori fra estremismi, rivoluzioni dal basso, immobilismi, crisi economico-politiche. Barack Obama è l’ uomo chiave dei nostri tempi: si è confrontato con tutte le più svariate dinamiche internazionali della postmodernità, distinguendosi notevolmente dalle tipiche linee politiche statunitensi.

    La presidenza Obama si apre nel gennaio 2009 in uno dei peggiori periodi per la storia americana e globale: fra le macerie della crisi economica, l’uomo americano non è più il potente padrone di se stesso, e Barack deve farci i conti.
    Analizzando gli anni di presidenza obamiana si assiste alla crescita di una politica statunitense atipica, nuova, più multilaterale, più dialogante e meno bellicista, in grado di ottenere ottimi risultati in campo diplomatico più che in campo militare. Particolarmente nel caso siriano Obama ha violato il così detto, ironicamente, “manuale delle regole di Washington”.
    “A Washington c’è un manuale di regole che il presidente è tenuto a seguire, scritto dalle persone più influenti in politica estera”, spiega il signor presidente, “E il manuale prevede le risposte a diversi eventi, e queste risposte tendono a essere militari (…). Nel pieno di una sfida internazionale come quella della Siria, chi non segue il manuale delle regole viene giudicato severamente, anche se ci sono buoni motivi per non applicarlo”. E aggiunge: “Trovo poco intelligente l’idea che appena c’è un problema mandiamo i nostri militari a imporre l’ordine. Semplicemente, non lo possiamo fare” .

    Obama ha dichiarato più volte di volersi distinguere dalla politica interventista di George W. Bush; infatti, non si è mai sentito in dovere di mettere il naso in tutte le faccende internazionali. Non è andato in guerra contro il governo di Bashar al Assad in Siria. Non ha ceduto ad una nuova guerra fredda con la Russia all’epoca della crisi in Ucraina. Non ha bombardato l’Iran, ma ha siglato un accordo politico per bloccare il suo programma nucleare. Non ha attaccato la Corea del Nord quando quest’ultima ha condotto dei test nucleari. Obama è stato il rappresentante dell'America instabile che ha bisogno di tutelarsi, di ricostruirsi un ambiente sicuro, per ritrovare la forza che la Potenza statunitense crede insita nella sua natura. Era necessario non intervenire in guerra, riformare la sanità e tentare di limitare il commercio delle armi, ma i repubblicani non sono stati pronti ad accettare questa scomoda e rattristante realtà ed hanno cercato di limitare l’intervento di manutenzione e ristrutturazione proposto dai democratici. Non sono mancati scontri anche con il suo primo segretario di Stato, Hillary Clinton, che riteneva indispensabile l’intervento americano in Libia nel 2011, il quale portò alla destituzione dell’allora presidente Muammar Gheddafi. Obama, ad oggi, considera quell’intervento assolutamente inadeguato; lo ritiene parte dell'instabilità della Libia: un episodio che lo ha sicuramente indotto a guardarsi dall'intervenire nuovamente in Medio Oriente.

    Lo si accusa di essere il condottiero del “declino della potenza americana e della sua forza ordinatrice sulla scena internazionale”, come scrive la giornalista e filosofa Ida Dominijanni. Tuttavia: “Non si trattava di accompagnare un ridimensionamento non solo dell’impegno militare, ma anche della retorica e della hybris della più grande potenza del mondo? Eppure è proprio questo che non gli viene perdonato, quasi fosse un lutto insostenibile per gran parte dell’opinione pubblica americana e mondiale”.

    Obama ha agito con prudenza, con atteggiamenti che hanno sempre caratterizzato gli europei più che gli americani; ha portato la mediazione e la diplomazia nella patria dell’impulsività politica, cosa che non faranno certo i suoi immediati successori, i feroci candidati al trono della Casa Bianca: il re leone Trump e la leonessa Clinton.

    Giulia Bernacchi

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