Replying to Feel the Bern: come Sanders può cambiare il voto in America

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  1. Posted 20/6/2016, 15:39
    Dopo mesi di accesi dibattiti e scambi d’accuse, il Partito Democratico pare aver trovato il proprio candidato: Hillary Clinton ha ottenuto l’ultima (scontata) vittoria nel cuore dell’establishment statunitense, Washington DC, non prima di aver raggiunto la quota 2.383 delegati necessari all’investitura ufficiale che si avrà con la convention democratica di luglio. Una nomination che alcuni mesi pareva certa, ma che ha trovato nel senatore del Vermont Bernie Sanders un avversario capace di mettere a repentaglio una candidatura che aveva ricevuto il sostegno del presidente uscente Obama e della quasi totalità del partito.

    Lo scontro e il confronto sono elementi insiti nel carattere di qualsiasi elezione primaria, tuttavia quella che ha visto sfidarsi la Clinton e Sanders è densa di implicazioni inedite nella tradizione politica statunitense che vale la pena comprendere (volendo estendere il nostro sguardo anche al campo repubblicano, possiamo ben affermare che queste elezioni presidenziali sono tra le più singolari degli ultimi anni).

    Prima di tutto Bernie Sanders si definisce un socialista democratico, fatto più unico che raro negli Stati Uniti che hanno conosciuto il maccartismo e hanno ancora viva la memoria della guerra fredda contro l’Unione Sovietica. Il fantasma del socialismo non pare tuttavia spaventare molti americani ormai: Sanders, che guarda a modelli come il New Deal di Roosevelt e le socialdemocrazie scandinave, ha fatto breccia soprattutto tra i giovani, le donne e le classi operaie bianche, ottenendo fino ad oggi quasi 13 milioni di voti, 4 milioni in meno rispetto a quelli della Clinton. Un risultato impensabile fino ad un anno fa, per un candidato socialista, senatore di uno stato che conta meno abitanti delle province di Pisa e Grosseto messe insieme, sconosciuto all’elettorato e che non può giocarsi in alcun modo la carta del “primo presidente…” su cui la propaganda democratica ha tanto insistito negli ultimi anni, da Obama, “primo presidente nero”, alla Clinton, “prima presidente donna”.

    L’inaspettata popolarità di Sanders ha costretto la Clinton, da sempre una liberal più o meno progressista a seconda dello spirito dei tempi, a spostare a sinistra i toni della propria campagna, contribuendo alla sempre più marcata polarizzazione di queste elezioni presidenziali.

    Il programma di Sanders è infatti ambizioso, contro l’establishment e lontano dal pragmatismo della Clinton: le proposte comprendono, tra l’altro, l’università pubblica gratuita da finanziare attraverso una regolamentazione severa della finanza (e di contro Sanders accusa la rivale di ricevere finanziamenti da Wall Street e dai sauditi), lo smantellamento dell’Obama-care (la riforma sanitaria attuata da Obama) e la sua sostituzione con un sistema sanitario gratuito sul modello europeo. L’audacia di Sanders non è comunque bastata a convincere la maggioranza dell’elettorato, che soprattutto nella sua componente nera e ispanica gli ha preferito Hillary Clinton.

    Ciò nonostante, neppure l’ex first lady riesce a fare totalmente breccia nel cuore dell’elettore americano: nei sondaggi il suo vantaggio su Trump negli ultimi mesi si è ridotto ad una manciata di punti percentuale e a fine maggio per qualche giorno il candidato repubblicano ha persino sorpassato l’avversaria di un infinitesimale ma significativo 0.2% [fonte: REALCLEARPOLITICS].

    La verità è che gli americani non apprezzano Trump, ma neppure la Clinton. Durante la campagna elettorale la candidata democratica ha fatto di tutto per apparire vicina alle fasce più deboli e alle minoranze etniche e sessuali, ma su di lei pesa la critica di aver spesso mutato le proprie opinioni a seconda delle opportunità politiche: se per esempio nel 2004 Hillary Clinton si dichiarava categoricamente contro le unioni omosessuali, dal 2013 si è trasformata in una “storica sostenitrice dei matrimoni gay”. Ancor più pesanti sono le accuse di scarsa trasparenza e di aver mentito più volte di fronte agli americani, e non solo quando si è trattato di bugie veniali, come quando descriveva una normale e pacifica visita ad una base militare in Bosnia come un rocambolesco atterraggio sotto il tiro dei cecchini serbi (umana vanità).

    Nel 2012 la Clinton, ai tempi Segretario di Stato, fece infatti discutere di sé in occasione dello scandalo delle e-mails, a seguito della morte dell’ambasciatore statunitense in Libia in circostanze mai del tutto chiarite. Una commissione di inchiesta del Congresso che indagava sull’accaduto chiese alla Clinton di consegnare tutte le mail ricevute e inviate sulla Libia durante il suo incarico, ma questa presentò solo una parte del materiale in suo possesso, in aperta violazione della legge.

    Durante la campagna elettorale, la Clinton è ben riuscita a far passare in secondo piano questo ed altri episodi, attraverso una capillare propaganda elettorale che ha toccato media e social networks, ma i cittadini statunitensi non si sono lasciati persuadere del tutto e se l’ex first lady è in testa ai sondaggi, ciò è dovuto principalmente all’ostilità che molti americani nutrono per Donald Trump.

    La vulnerabilità della candidata democratica è accentuata dalla evidente scissione avvenuta alla base del partito tra i suoi sostenitori e quelli di Sanders. I due politici infatti sono talmente antitetici che una parte dei sostenitori del senatore del Vermont negherà il proprio supporto alla Clinton; alcuni americani sarebbero persino disposti a votare Trump pur di non vedere al potere un’altra espressione dell’establishment.

    Il risultato delle elezioni di novembre, oltre che nelle mani dei candidati, è anche in quelle di Sanders: se riuscirà a giungere ad un accordo con la Clinton per salvaguardare alcune sue rivendicazioni, potrebbe convincere i suoi sostenitori più fedeli (e quella parte di elettorato che vorrebbe passare a Trump) “a turarsi il naso e votare la Clinton”.

    Una sola cosa è certa: qualunque sarà il candidato ad abitare la Casa Bianca, dopo queste elezioni i democratici non saranno più quelli di prima. La rottura avvenuta con la base – e con i giovani in particolare – è tale che in assenza di aperture da parte del partito, potrebbero aprirsi scenari del tutto inaspettati.

    Il successo di Trump e l’inaspettato exploit di Sanders sono segnali ormai chiari di quanto gli americani siano sempre più insofferenti verso un sistema in cui a decidere non sono mai stati propriamente i cittadini, ma un complesso apparato in cui la democrazia viene guidata da un’élite politica bipartisan che scende spesso a compromessi con i poteri forti.

    Staremo a vedere se i cittadini americani preferiranno il mantenimento dello status quo con la Clinton o proveranno a fare un salto nel buio (molto oscuro) in nome di un qualche cambiamento scegliendo Trump.


    Alessandro Agnitti


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