Replying to Fake America Great Again

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  1. Posted 16/6/2016, 13:56
    È passato esattamente un anno dal 16 giugno 2015, giorno in cui Donald Trump annunciò la sua candidatura alle primarie repubblicane. Allora quell’annunciò scatenò la gioia di comici e vignettisti, che avevano finalmente trovato il loro bersaglio. Uno dei primi sondaggi, realizzato da Real Clear Politics, assegnò a Trump il favore del 3,6 % degli elettori repubblicani. I vertici del GOP (Partito Repubblicano americano) vedevano di cattivo occhio la sua candidatura.

    Oggi The Donald non solo è il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, ma, con oltre 13 milioni di elettori, è il candidato che ottenuto più voti alle primarie nella storia del partito repubblicano. Che cos’è che ha spinto così tanti statunitensi, la maggior parte dei quali non vedevano di buon occhio la sua candidatura, a votare per lui? La sua dirompente “spontaneità”? la sua totale assenza di politically correct? Il suo programma radicale e rivoluzionario? Oppure il fatto che si sia, sin dall’inizio, presentato come candidato anti-establishment?

    Negli Stati Uniti, i partiti sono ben altro da ciò che essi sono in Italia e in Europa, cioè associazioni che si occupando di raccordare il mondo politica con la società civile. Negli Usa, i partiti sono più simili ad enormi aziende capaci di mettere in piedi una colossale macchina elettorale in vista delle elezioni. Le campagne elettorali possono arrivare a costare fino a sei miliardi e il principale obiettivo dei partiti e dei candidati non è la stesura di un programma politico efficace, ma la creazione di un’immagine e uno slogan vincenti. Lo slogan è la prima immagine che un candidato vuole dare di sé. E lo slogan scelto da Trump è la sintesi perfetta di ciò che lui ha voluto trasmettere ai suoi potenziali elettori: “Make America great again”. Con questa scelta, il tycoon neyorkese ha deciso di porsi in linea di continuità con uno dei più popolari presidenti degli Stati Uniti, Ronald Reagan, che si presentò alle presidenziali del 1980 con lo slogan “Let’s America great again”. Le analogie tra i due profili sono numerose: la totale inesperienza in campo politico, l’utilizzo di sottotoni razzisti, la capacità comunicativa diretta e le idee radicali. In realtà, i programmi elettorali dei due contengono notevoli differenze che li allontanano, almeno sul piano “ideologico”: Reagan propendeva per un’economia fortemente liberista e un forte intervento in politica estera, culminato nella fantascientifica ipotesi del SDI (Strategic Defense Iniziative), meglio noto come Scudo spaziale. Idee queste ben lontane dal programma di Trump.

    Questo perché l’analogia più grande tra i due non riguarda, per l’appunto, il programma, bensì l’idea che intendono trasmettere: quella di un’America forte, indipendente dal mercato e dalle pressioni internazionali, favorevole alla classe media. Ed è qui che le idee di Trump sono risultate vincenti. Il bacino di utenza che, alle elezioni del 1980, portò alla vittoria di Reagan era costituita da un elettorato “bianco” e conservatore rimasto profondamente deluso dopo la rivoluzione culturale degli anni ’60 e la fallimentare guerra in Vietnam. Oggi buona parte di quello stesso elettorato, perlopiù appartenente alla middle class, non ha ancora superato lo shock della crisi economica immobiliare dei primi anni 2000, si sente insicuro di fronte ai fenomeni migratori, alle minacce dell’integralismo islamico; sente il bisogno di un uomo forte al comando, quell’uomo forte che, a parer loro, Obama non ha saputo essere. È stato questo il gruppo sociale che ha portato il tycoon newyorkese alla nomination. Dalle restanti parti dell’elettorato Trump ha ottenuto ben poco: ispanici e afroamericani, già poco inclini al voto repubblicano, sono stati oggetto dei suoi attacchi xenofobi, le donne, anch’esse nel mirino di The Donald, si sono in gran parte schierate per Hillary Clinton, mentre i giovani hanno inseguito il “sogno” di Bernie Sanders. Ma basterà il voto dell’elettorato (maschile) bianco per vincere le presidenziali? Assolutamente no, dicono i sondaggisti. L’elettorato bianco, nell’anno della vittoria di Reagan costituiva circa l’84 % della popolazione statunitense; oggi solo il 70 %. Questo dato, anche a fronte di un maggiore astensionismo della componente elettorale bianca, ha notevolmente favorito la vittoria di Obama nel 2008. Dunque se la tendenza rimarrà la stessa delle ultime presidenziali, dove meno del 20 % delle c.d. minoranze etniche ha votato per il candidato repubblicano, Trump è condannato alla sconfitta.

    Oltre che con l’ostilità delle minoranze etniche e di una buona parte dell’elettorato femminile, Trump deve anche fare i conti con la freddezza a lui riservata dai vertici del GOP (Grand Old Party). Il Partito Repubblicano aveva infatti inizialmente osteggiato le candidature di Trump e Cruz (l’unico che è stato in grado di strappare voti al miliardario), esprimendo la propria preferenza per candidati quali Jeb Bush, Marco Rubio, John Kasich e Chris Christie. Questa ostilità non era stata dettata solo dalla totale mancanza di sinergia con i vertici repubblicani, quanto dalla totale incompatibilità di alcuni punti del programma di Trump con l’” ideologia” repubblicana classica (seguita anche da Reagan). Infatti, se si vanno ad analizzare con attenzione le sue idee, si potrà subito notare che Trump è ben lontano dalle idee repubblicane.

    La prima cosa che si nota nel “programma” elettorale di Trump è una sostanziale mancanza di organicità e di coerenza di fondo, tralasciando le numerose volte che The Donald è caduto in contraddizione. In campo economico ha annunciato di voler tagliare il debito pubblico americano di circa 19.000 miliardi di dollari; successivamente ha annunciato un taglio delle tasse alla classe media (il suo principale bacino di voti) e alle imprese che, secondo la Tax Foundation di Washington, ridurrebbe le entrate fiscali di circa 10.000 miliardi di dollari in dieci anni, rischiando di provocare un buco di quasi 30.000 miliardi di dollari. Inoltre Trump è un fautore del protezionismo, essendosi espresso a favore dell’introduzione di dazi doganali contro le importazioni cinesi.

    La riforma dell’immigrazione, che secondo gli analisti è stata la sua carta vincente, se da una parte è una delle parti del suo programma su cui non è caduto in contraddizione, dall’altra propone idee, quali la costruzione di un muro al confine con il Messico e l’eliminazione del diritto di cittadinanza per nascita, che, nel mondo odierno, appaiono irrealizzabili.

    Controverse anche le sue posizioni in politica energetica: dopo aver definito il riscaldamento globale una “bufala”, ha affermato che bisogna puntare sulle energie fossili (e dunque non rinnovabili) per lo sviluppo dell’industria e dell’economia del paese.
    Anche in politica estera Trump non si è dimostrato molto coerente: egli intende allentare le tensioni con Russia e Cina, far pagare agli alleati NATO la stessa somma “versata” dagli Stati Uniti e sconfiggere l’Isis una volta per tutte. Quest’ultimo punto in particolare cozza con la sua affermazione di voler “mandare truppe all’estero solo se strettamente necessario”.

    In ogni caso, le posizioni di Trump sono in buona parte lontane dalla tradizione repubblicana. Ne è convinto il professor Matthew J. Franck, filosofo politico, esperto costituzionalista e professore emerito di Scienze Politiche alla Radford University (Virginia). In un’intervista risalente a due mesi fa, nel dare una definizione del conservatorismo americano, ha sostenuto che le idee di Trump, soprattutto in materia economica, differiscano dalla tradizione repubblicana: in particolar modo attacca le sue posizioni protezionistiche, contrastanti con il libero commercio e il libero mercato da sempre inseriti nel programma elettorale dei candidati repubblicani.

    Ma a Trump molto probabilmente le opinioni dei teorici repubblicani poco interessano. Egli starà già probabilmente studiando come demolire il suo prossimo avversario, la candidata democratica Hillary Clinton. Da un lato molti sono convinti che, nella speranza di allargare il suo elettorato, il tycoon da adesso in poi rinuncerà a dichiarazioni eclatanti e toni volgari; secondo altri, The Donald continuerà a seguire quella linea irriverente ed estremista che lo ha portato alla nomination. Una cosa è certa: egli continuerà a seguire la “strategia della paura” che ha dimostrato (e non solo negli Usa) di portare buoni frutti. Ed eventi drammatici come la recente strage di Orlando per un uomo spregiudicato come Donald Trump sono una manna dal cielo.


    Alessandro Marchetti

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