Il termine “meritocrazia” fu usato per la prima volta dal sociologo britannico Micheal Young, che
sintetizzò il concetto di governo del merito nella formula M = QI + E ( Merit = QI + Effort ).
In origine con “meritocrazia” si intendeva una forma di governo dispotico responsabile della
formazione di una classe sociale dominante, costituita appunto da individui particolarmente capaci
secondo la valutazione del rispettivo quoziente intellettivo e dello sforzo impiegato nel dedicarsi ad
un certo tipo di lavoro.
Anche se negli anni il termine ha sovente acquistato una connotazione positiva, è opportuno
ricordarne il concepimento e la nascita per distinguere lucidamente tra pari opportunità e
discriminazione.
Young nel 1958 pubblicò un vero e proprio romanzo dispotico in cui illustra dettagliatamente come
il regime meritocratico (proiettato nel futuro) si è affermato negli anni, le conseguenze sociali e la
sua decadenza grazie ai moti rivoluzionari dei cittadini del 2033. L’eredità che proviene da “The
Rise of Meritocracy” è più che mai spendibile nella società odierna, dopotutto la politica
meritocratica è uno dei miti più invocati e sbandierati del nostro tempo.
Sono in molti a credere che un sistema meritocratico sia una buona base sociale per più giustizia e
più produttività rispetto ad altri sistemi, infatti già con John Locke e Thomas Jefferson si parla di
meritocrazia : del concetto di proprietà acquisito attraverso lo sforzo per il primo, di merito e
operosità come basi del sistema repubblicano americano per il secondo. In sostanza un genio
pigro non è un genio.
Tuttavia le riflessioni sul merito tendono a caratterizzare la contemporaneità più delle epoche
passate, addirittura per l’anarchico Bakunin dopo il dominio del capitale viene quello
dell’informazione detenuta dai più scaltri.
Sempre secondo il sociologo Young, la meritocrazia si sostituisce alle vecchie ideologie politiche
che hanno cavalcato il XX secolo, proponendosi come paradigma del dominio contemporaneo.
Niente supremazia della razza ariana, nessuna avanguardia del proletariato, bensì un aristocrazia
dell’ingegno: chi sa di più domina su chi sa di meno.
Con il principio del merito che entra a far parte del senso comune degli individui, si forma anche il
principio di legittimazione del potere della classe privilegiata di cervelloni: questo significa che chi è
in basso è convinto di meritarlo, poiché c’è un criterio scientifico a dimostrarlo.
La meritocrazia diviene con facilità la giustificazione del divario sociale, in modo legale e
socialmente accettato; infatti, se il criterio di valutazione del valore è scientifico e calcolabile, gli
“stupidi” non possono dire di essere trattati da inferiori, perché di fatto lo sono.
Anche se la distribuzione di ricompense diviene fortemente ineguale, il conflitto è quasi in
esistente, poiché l’inferiore può prendersela solo con se stesso per la sua inefficienza, chi è sopra
di lui lo merita.
A questo punto è chiaro chi merita il merito e attraverso quali criteri, ma in che modo questo
meccanismo prende forma ?
Ebbene, se il merito implica una valutazione e un giudizio, non poteva palesarsi in nessun altro
luogo meglio che a scuola, l’ istituzione che imprime l’insegnamento necessario per utilizzare i
bisogni e le risorse della nazione.
Precludendo opportunità e privilegiando valori e intelligenze standardizzate, la scuola forma una
selezione sociale: sopravvengono scuole di serie A e serie B, figli di laureati destinati a laurearsi a
loro volta, figli di ricchi destinati ad arricchirsi a loro volta, c’è il rischio di sprecare delle intelligenze, creando infelicità.
Addirittura spesso si tende a svalutare il lavoro manuale rispetto a quello mentale, o a fare il
contrario come prevedono alcune dottrine marxiste, tutto ciò senza tener conto che i bambini sono
una combinazione di facoltà che possono essere coltivate mediante l’educazione: ogni bambino è
un individuo prezioso, e non soltanto un potenziale funzionario.
La maggior parte delle persone intelligenti vuole farsi strada nel mondo, questi individui possono
riuscire tranquillamente nei loro intenti senza impedire a nessuno di essere nutrito dalle idee,
mettendo a disposizione di tutti la diffusione del meglio di quanto è stato pensato e capito nel
mondo.
La democrazia deve essere intesa come governo del popolo, non come governo della parte
intelligente del popolo, di un elite.
Meritocrazia e uguaglianza non sono la stessa cosa, infatti uguaglianza di opportunità significa essere ineguali e incoraggiare il pluralismo di valori.
Probabilmente l’unico grande svantaggio che abbiamo è di essere in molti, e non trovarci più con i
canoni che hanno sempre caratterizzato la democrazia: molti grandi giuristi contemporanei
ridimensionano infatti il concetto di sovranità popolare democratico. Non avere questa sicurezza ci
rende inclini alle degenerazioni senza guardare in faccia al nostro vicino svantaggiato, basta
considerarlo più “stupido”.
Nel momento di difficoltà, di fronte a un cambiamento, si torna indietro ad una sorta di aristocrazia,
la cosa più immediata per preservarci e farci valere nella nuvola grigia della concorrenza. In questo modo l’uomo intelligente cerca di realizzarsi e prevaricare gli altri per la caratteristica in cui sa di spiccare, trovandosi finalmente al sicuro.
Il potere dell’uomo intelligente sta nell’utilizzare le proprie risorse affinché queste promuovano lo
sviluppo della società e delle conoscenze, per affievolire sempre più il divario sociale, poiché il
progresso reale si attua elevando tutti gli individui. Investire solo su una parte porta un progresso
parziale e instabile.
E’ fondamentale sviluppare i talenti, le virtù, le capacità di comprendere la bellezza e la profondità
dell’esperienza umana; una misura matematica non può impedire ad un individuo di vivere una vita
ricca.
Giulia Bernacchi